Pesca con le budellina
Pesca con le budellina. Quasi metà anni ’70 (vedi foto). La crisi petrolifera è ormai alla spalle. I soloni che avevano profetizzato una stretta sulla produzione del petrolio erano stati contraddetti, con grande sollievo per noi pescatori che vedevamo dissolto il timore di dover pescare nel laghetto a pagamento sotto casa. La rincorsa verso i “nostri” fiumi era di nuovo realtà: Merse, Ombrone, Fiora, Marta, Mignone, Tevere, Paglia ed Arno alto ci aspettavano con tutta la loro potenziale bellezza. Solo il Serchio e il medio corso dell’Arno erano impraticabili perché compromessi dall’inquinamento. Si stavano muovendo i primi timidi passi verso una maggiore salvaguardia dell’ambiente, si faceva molta teoria e la depurazione delle acque era ancora in fase embrionale.
La compagnia
Eravamo una cerchia piuttosto ristretta di giovani provinciali appassionati di pesca che non vedevano l’ora di macinare chilometri alla ricerca di continue emozioni sulle rive degli amati corsi di acqua. Alla luce dei giorni nostri riconosco come il nostro modo di praticare la pesca fosse piuttosto convenzionale e stereotipato e come rispecchiasse per lo più rigidi canoni stagionali. Il primo interesse era l’ambiente, privilegiavamo i luoghi solitari e selvaggi, i paesaggi possibilmente solitari ed incontaminati. I pesci rappresentavano a volte un elemento secondario, apparentemente importante solo se catturati nelle buche e nelle correntine del Fiora alto, nelle ampie lame di acqua dell’Ombrone a Marucheti, nelle correnti del Tevere presso Umbertide, oppure nei pozzi trasparenti dell’Arno alto. Eravamo “unici” per il solo fatto che pescavamo tutto l’anno, o almeno senza soluzione di continuità per almeno dieci mesi, interrompendo la pratica alieutica, ma solo parzialmente, nei mesi di settembre ed ottobre nella speranza di riempire capienti panieri di profumati porcini. La stagione della pesca con le budellina iniziava idealmente a novembre e fino a marzo rincorrevamo le insenature più riparate dove insidiavamo tramite la pesca con le budellina e talvolta i fegatini di pollo i grossi cavedani. In primavera si facevano correre lenze un po’ più leggere nelle correnti e con i bigattini cercavamo i barbi, fin tanto che le alborelle non arrivavano a massacrarci l’esca. Allora giungeva il momento di altri innesti e di altri sistemi: granturco, crisalide del baco da seta (comunemente bacoccio), pasta di farina gialla e vaniglia, ciliege ed uva nera erano i cibi più gettonati. Usavamo sostanzialmente tre tipi di attrezzatura: in inverno bolognese di 4 mt e 1/2 teleregolabile con ami del n. 8/6, galleggianti di tot grammatura, corona di diversi pallini del n. 3 e finali che andavano dallo 0.15 allo 0.20; in primavera era la volta delle fiorentine fisse di 7 ed 8 metri con montature leggermente più fini; infine in estate le bolognesi rigide che talvolta usavamo anche per la pesca a fondo.
Questa rigorosa ciclicità è andata avanti fino agli inizi degli anni ’80, quando un radicale mutamento nella pratica della pesca si è abbattuto pesantemente sulle nostre convinzioni e sicurezze e tutto è cambiato. Non voglio dilungarmi oltre sulle trasformazioni, sarebbe fin troppo pleonastico e noto a tutti. Cito solo, per i più giovani, l’introduzione della fibra di carbonio nella costruzione delle attrezzature e la enorme espansione delle gare di pesca che in qualche modo ha fatto da volano all’industria della pesca. Ma per noi poveri ed inguaribili nostalgici, era un problema anche non trovare più le amate budellina di pollo: vuoi per la chiusura di quasi tutti i mattatoi privati ed artigianali, vuoi per le norme igieniche che prevedevano altri e più rigidi sistemi di smaltimento. Infine, all’orizzonte si stava affacciando l’interesse per la pesca in mare, che all’interno del nostro gruppo era considerata dai più una evoluzione rispetto al fiume e che per certi aspetti determinerà il definitivo smembramento dello stesso gruppo. Ma di questo ne parleremo in altre occasioni.
Ma facciamo un passo indietro…
Pesca con le budellina di pollo
La maggior parte delle volte ci trovavamo il venerdì dopo cena al laboratorio artigianale dell’amico Bruno, dove c’era spazio e comodo per “elaborare” le budella. Ognuno con farina di mais, forbici grandi da sarto, guanti di plastica gialli od arancioni, tubetto di anilina e capiente sacco in tessuto pesante. Era un bel momento come tutte le vigilie di un grande appuntamento. Da lì partivano le prime sfide, le prese in giro ed i programmi che avremmo realizzato solo poche ore dopo. Si, perchè la partenza era per le 4,00. Destinazione: fiume Fiora nella zona poco a monte dell’invaso adiacente il castello di Vulci. Dovevamo percorrere oltre 200 km. (da Firenze a Ponte S. Pietro sono 205 Km. esatti) di strada normale poi da Ponte S.Pietro fino alla zona di pesca c’erano altri 10/15 km di strada che chiamarla bianca o sterrata è un eufemismo, perchè estremamente accidentata, piena di buche, pietre e ribollite. Dopo quasi tre ore si arrivava a destinazione, in pratica la strada finiva e non si poteva andare oltre. Da qui, l’invaso di Vulci dista 7/8 km. e noi li avremmo percorsi a piedi, o come si diceva noi “buca dopo buca”.
Con il senno del poi e con qualche anno i più sulle spalle, ritengo tutto questo una pazzia. Anche perchè sovente c’era il rischio di trovare il fiume torbido o troppo chiaro complice qualche periodo di siccità. Quest’ultima condizione era senz’altro la peggiore per la pesca con le budellina. Meglio l’acqua torba. Se non c’erano le condizioni ritornavamo sulla cilindrata e ci dirigevamo nel Marta, zona Tarquinia. E’ successo raramente di non aver pescato e di aver fatto allora un po’ di turismo. In uno di questi rari momenti, ricordo ancora la sensazione di estrema angoscia provata nell’attraversare il centro storico di Tuscania a seguito del terremoto del febbraio 1971. Erano passati alcuni anni, ma la ricostruzione era ancora di là da venire. La memoria si ferma sulla fatiscenza delle case, sulle assi grossolane con cui erano state sigillate porte e finestre. E sul quel silenzio irreale, su quell’aria innaturale che si respira negli ambienti feriti, violati, distrutti.
I preparativi
Arrivati a destinazione, iniziava il rito della vestizione: stivali a coscia, giubbino smanicato per l’attrezzatura e rigorosamente con il carniere per il guadino regolabile ed il mangiare, sacco delle budella, cestino in vimini porta pesci e canna bolognese in fibra di vetro rigida. Era il momento dei saluti: ognuno per se, Dio per tutti. Ci saremmo ritrovati alle 12,30 per il pranzo. Ci sguinzagliavamo per il fiume, ognuno inseguendo le proprie zone, addirittura i propri punti di pesca, che riconoscevamo dal nome di battesimo di ognuno. C’erano così i posti di Marcello, di Bruno ecc. e non invadere la buca, l’insenatura o la corrente di un amico quando faceva parte della comitiva era un imperativo morale. Rammento con nostalgia la determinazione con cui affrontavamo quelle lunghissime camminate e quel senso di estrema libertà che ci trasmettevano quegli ampi spazi. Era come entrare in una scena di un film per quei giochi li luce diafani e morbidi allo stesso tempo. Era il nostro paradiso terrestre per il clima mai ostile, per l’incanto e la dolcezza delle colline, per una natura di rara bellezza.
L’azione di pesca
Della montatura per la pesca con le budellina ne ho già parlato, importante era poggiare l’esca sul fondo e al momento dell’abboccata aspettare qualche secondo prima di ferrare, il pezzetto di budella doveva essere bene ingoiato. Una volta allamato e senza troppi indugi, il pesce veniva avvicinato a portata di guadino, slamato e messo nella cesta. Trattandosi di pesci di taglia considerevole non ci potevamo permettere di liberarli per non compromettere lo spot, dove avremmo fatto qualche altro tentativo prima di cambiare. Ma la ragione principale per cui non rilasciassimo i pesci era la necessità di dare un senso alla giornata, quantificando il pescato, oltre a quella velleità di competizione che ci faceva gareggiare con gli amici. Infine, e un po’ me ne vergogno, per qualche anno, pochi per fortuna, la cultura di liberare i pesci non aveva fatto breccia nelle nostre menti. I pesci una volta a casa venivano consegnati ai nonni e da questi regalati ad amici e parenti che pare li apprezzassero. Era questa una delle tante funzioni di quella generazione di nonni di noi pescatori ed è singolare come la loro scomparsa sia coincisa con una nuova presa di coscienza in favore di quei poveri animali.
Quando la mattina stava volgendo a termine ci dirigevamo nel posto convenuto per il pranzo, che era anche un momento per scambiare impressioni e considerazioni sull’andamento della pesca. Dal carniere spuntavano saporite salsiccie, rigorosamente fresche, pane e bottiglietta di vino. Un bel fuoco e coltello alla mano andavamo alla ricerca di un rametto verde da sbucciare in cui infilare le salsiccie. Alla fine quasi sempre appariva una piccola bottiglietta di caffè. A questo punto era ora di ricominciare a pescare.
Solo quando iniziava a far scuro smettevamo e solo allora potevamo intraprendere il viaggio di ritorno. La giornata doveva essere completa ed è grazie a questa pienezza che, a distanza di tanti anni, quei momenti sono ancora vivi e presenti dentro di noi. Questa volta però le esche sono cambiate…leggi l’articolo.
ATTREZZATURA CONSIGLIATA
Per la pesca alla passata non occorre troppa attrezzatura come per le gare agonistiche, anzi, meno cose abbiamo più è facile muoversi. La mia esperienza mi insegna che ci vuole però attrezzatura di qualità per non ritovarsi a spiacevoli sorprese.
Qua vi elenco alcuni prodotti che ritengo essere perfetti per la pesca alla passata:
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